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Città instagrammabili
Quando l’architettura è a misura di selfie

Instagrammabile: un’architettura a misura di selfie
Farsi una foto davanti al Colosseo, su una spiaggia corallina, davanti alle Dolomiti non è certo una novità. Tutti noi abbiamo in casa album delle vacanze, ricordi di un viaggio, istantanee di luoghi che abbiamo visitato tanto tempo fa. Ricordi personali che appartenevano a noi, solo a noi, e ai nostri cari. Nel tempo del web gli stessi luoghi e gli stessi viaggi non sono più strettamente personali: tutto diventa collettivo, condiviso, moltiplicato all’infinito. Ovunque ci troviamo possiamo fare vedere a tutti che cosa stiamo vivendo. In questo turbinio di immagini che affollano i social (da Facebook a Instagram), le città sembrano conoscere un periodo di particolare successo: qui si concentrano monumenti, opere d’arte, architetture più o meno famose, locali eccentrici, murales colorati. Le città diventano così dei set perfetti, scenografie suggestive, dove scattare fotografie e farsi ritratti digitali. Naturalmente Instagram - il social di immagini, filmati e storie, più amato dai giovani - con i suoi 800 milioni di utenti ha amplificato questo fenomeno al massimo livello. Tanto che è stata coniato un aggettivo ad hoc che descrive l’attitudine di alcuni luoghi a diventare virali: instagrammabile.
I miei studenti di architettura, da cui ho appreso il termine, prima di ritrovarlo usato nei saggi di comunicazione, lo usano con disinvoltura. È instagrammabile il nuovo negozio di Apple a Milano, che da spazio di commercio è diventato una piazza urbana che attira turisti e cittadini, con le sue gradinate, la sua parete di acqua, le vetrate. Sono instagrammabili le grandi architetture firmate da archistar, i grattacieli e le nuove piazze, come lo sono dettagli molto piccoli di interni, l’arredo di un bar raffinato, il ristorante allestito con materiali riflettenti e specchi. Ovviamente ci sono oggetti che si prestano particolarmente a questo gioco collettivo, le superfici curve e dorate di alcune opere d’arte pubbliche, le fontane che zampillano, le sculture fuori scala, scenografie particolarmente fotogeniche e particolarmente adatte a incorniciare i ritratti dei viaggiatori contemporanei.
Questa fotogenia degli spazi viene oggi ricercata ad arte nei centri commerciali, nei musei più evoluti, nei nuovi alberghi pensati per sorprendere, attirare, coinvolgere i propri ospiti. In un processo di continuo di rinforzo reciproco, io-ti-attiro, tu-mi-fotografi. Nei casi più sofisticati la stessa architettura si inchina alla potenza dei selfie e gioca con la propria dimensione scenografica, sacrificando funzione e bellezza. Saremo condannati a vivere dentro set fotografici? Non penso. Un giorno, molto presto, saremo saturi di tutte queste immagini e ci tornerà la voglia di mettere i piedi nelle fontane e di sdraiarci nei parchi urbani, di passare da un Apple Store o da Starbucks. Senza farlo sapere a nessuno.
Volvo: this is not a car
Quando il marketing nega il prodotto

Volvo: this is not a car
Immaginate uno stand all’interno di una delle più grandi fiere dell’automobile mondiale, completamente vuoto. Senza nessuna macchina esposta. Chi si è aggirato per i vari stand, di auto in auto, potendo apprezzare nuove forme e nuovi modelli, si è trovato di fronte al nulla. Solo un marchio sicuro e coraggioso come Volvo poteva osare all’ultima Automobility LA di Los Angeles, e fare parlare di sé con una clamorosa assenza. Le auto non ci sono.
Provocazione? Trovata di marketing?
La scelta è precisa: Volvo non vuole più essere un player apprezzato che produce auto di valore, vuole posizionarsi nel più ampio mercato della mobilità, che in un futuro non troppo lontano potrebbe non coincidere più con l’uso del solo mezzo privato. Spostare l’attenzione sulla mobilità offre una prospettiva interessante.
Mårten Levenstam, responsabile della strategia di prodotto di Volvo Cars, spiega così la scelta aziendale: “noi vogliamo dimostrare di aver colto il messaggio e avviare un dialogo sul futuro dell’auto-mobilità. Quindi, invece di esporre una concept car, preferiamo parlare del concetto di automobile. Quest’anno non vinceremo certo il premio di ‘migliore auto del salone’, ma ci sta bene. Perché questo non è un salone dedicato alle auto.”
Volvo Cars propone una serie di dimostrazioni interattive dell’utilizzo dei servizi in connettività, come ad esempio la consegna di merci presso la vettura, il car sharing, l’utilizzo della guida autonoma secondo la sua visione, interpretata attraverso il prototipo Volvo 360c, e il suo servizio in abbonamento Care by Volvo.
Muoversi non è possedere un’auto, muoversi è poter godere di servizi personalizzati, muoversi significa condividere con altri soluzioni di mobilità a basso impatto ambientale. Volvo sta da anni segnando il passo, indicando nuove possibilità per un mercato troppo a lungo legato ad un prodotto (peraltro oggi fortemente in crisi).
La suggestione è davvero stimolante. In un mondo affollato di oggetti, di beni in fondo tutti così simili e comparabili - le auto di lusso oggi offrono tutte la stessa qualità, sicurezza, confort - lo spasmodico richiamo alla qualità e alla propria unicità, non paga più. La scelta di togliere, di sgombrare il campo, di passare da un piano materiale ad uno immateriale, dalle cose al loro funzionamento, ci pare vincente.

Responsabilità sociale d'impresa
In un mondo alla rovescia ne parla anche chi produce armi

Responsabilità sociale d'impresa
La famosa azienda italiana, collocata dagli anni Sessanta nel bel paesaggio dell’Italia centrale, si potrebbe dire che è una fabbrica modello. Sempre più attenta ai bisogni dei suoi dipendenti che fa lavorare in un ambiente sicuro e confortevole, capace di generare occupazione sul territorio, sensibile allo spopolamento e all’abbandono delle sue terre. Viene presentata entro una rassegna di aziende italiane capaci di interpretare al meglio il tema dell’innovazione tecnologica e della responsabilità sociale d’impresa (Ciclo di incontri FabbricaFuturo promossa da Este Edizioni, casa editrice di cultura d'impresa di Milano; si veda in proposito l’articolo https://www.fabbricafuturo.it/la-svolta-digitale-di-benelli-armi/).
C’è un però, che mi turba profondamente. La famosa azienda - Benelli - produce armi. Armi di ogni tipo, per la caccia, lo sport e la difesa personale, che esporta in 78 Paesi del mondo.Prendo mouse e tastiera, e avanzo delle critiche al fatto che un’azienda che produce armi possa essere indicata come esempio di impresa civile. Prontamente mi viene risposto che queste aziende innovano e contribuiscono ad aumentare l’occupazione facendo crescere i territori: “come sia pericoloso appellarsi a motivi etici decidendo a priori cosa bisogna produrre e cosa no. Bisogna considerare quanto una produzione porti benessere alle persone che ci lavorano, e ai territori”.
L’argomentazione non è inusuale. Contempla un’idea parziale di responsabilità che non possiamo condividere. Divide tra effetti diretti delle scelte - qualità di vita dei lavoratori, impatto territoriale, salute - su cui si pensa di avere delle responsabilità e effetti indiretti delle nostre azioni, che in nessun modo dipendono da noi. Un’azienda che produce armi non ha responsabilità su come verranno usate; se produce microchip non è responsabile se li vende ad aziende che li usano nelle mine anti-uomo. L’etica muove proprio dal ragionamento opposto. Guarda oltre, allarga lo spettro delle nostre responsabilità. Posso essere civile qui, se quello che produco è utilizzato nelle guerre del mondo per uccidere donne, uomini, bambini? Dove finisce la mia responsabilità?
L’economia e il profitto sanno armare le persone e le aziende di ogni giustificazione retorica al male. E oggi, paradossalmente più che nel passato, sono proprio queste aziende a lavorare al meglio sulla propria immagine aziendale così da confonderci le idee e annacquare i nostri valori collettivi. Un tempo le aziende che producevano morte - dal tabacco alle armi - mascheravano il loro brand con prodotti secondari, come vestiti, automobili, accessori e borse. In questo modo il nome del marchio circolava senza fare riferimento diretto ad un prodotto poco etico. Oggi, le strategie sono altre. Si sposta l’attenzione dal prodotto al processo, come se questo slittamento possa rendere immediatamente virtuoso anche il prodotto. L’attenzione viene spostata sul modo in cui è organizzata l’azienda, sui processi di automazione, sull’utilizzo di nuove tecnologie, virtuose e pulite per definizione.
Ma non basta, il branding si alimenta di narrazioni positive e di arene di riconoscibilità del proprio onore. Si partecipa ai talk in cui si parla di responsabilità sociale di impresa perché è caduto ogni tabù e ogni pudore intorno al proprio ruolo. Ci si accredita nei circoli dove si parla di etica, di ambiente rimuovendo dall’immaginario collettivo l’altrove e l’oltre il proprio giardino curato. Entro una mostruosa versione del Not in my Back Yard, si ha cura del proprio intorno, si invoca il tema della produttività e dell’innovazione tecnologica, ci si appella alla responsabilità sociale di impresa (almeno a parole), scaricando altrove costi ed effetti collaterali.
In questo gioco di reciproco riconoscimento (Ethical Washing?) siamo dentro tutti: editoria di settore, economisti più o meno civili, intellettuali, commentatori. Tutti ad affrettarsi a dire che non si può dire a priori cosa si produrre e cosa no. Siamo stati prima capaci di perdonare imprese che hanno distrutto l’ambiente per qualche politica di Green Washing, di chiudere un occhio sui diritti umani, guardando a qualche campagna sociale costruita dalle stesse aziende produttrici, ora siamo pronti per accogliere con bon ton e grande gentilezza chi produce bombe e fucili e poi si prodiga per ricostruire il tetto della chiesa o il giardino dell’asilo, che ci spiega come ha migliorato la produttività con l’Industria 4.0, senza tagliare posti di lavoro.
La narrazione di Paolo Viti, Direttore dello Stabilimento Benelli Armi per l’azienda di Urbino è in tal senso molto eloquente. “Per contestualizzare la crescita dell’azienda di armi da fuoco basti pensare che all’inizio degli Anni 90 le linee ‘sfornavano’ oltre 40mila fucili all’anno e impiegavano un organico di 124 dipendenti. Oggi abbiamo una capacità produttiva di 220mila fucili all’anno e il nostro organico è salito a 272 lavoratori, anche a riprova di come automazione e robotizzazione non abbiano tolto posti di lavoro, tutt’altro”, sottolinea il Direttore di Stabilimento (Sistemi&Impresa, 2018).Chi sappia cogliere questa informazione entro un quadro più ampio non può capire che il mercato delle armi è oggi uno dei più fiorenti, non perché ha saputo migliorare il suo approccio tecnologico ma perché si sono moltiplicati i focolai di guerra in ogni parte del mondo. L’uso di armi anche fuori dai contesti di guerra è una delle prime cause di mortalità nelle nuove generazioni. Secondo i dati prodotti dal Forum di Stoccolma per la pace e lo sviluppo nel 2018, la spesa militare mondiale totale è salita a 1.739 miliardi di dollari nel 2017. Il business è più che consolidato: l’export di armi verso i Paesi esteri cresce e l’Italia si inserisce nei big dei produttori di armi. Collocandosi al nono posto con il 2.5% delle armi di tutto il mondo ed al quinto su scala europea. Preceduta da USA (34%), Russia (22%), Francia (6.7%), Germania (5.8%), Cina (5.7%), Regno Unito (4.8%), Spagna (2.9%) e Israele (2.9%). Chiude la classifica al decimo posto l’Olanda (2.1%). I dati si riferiscono alla produzione nel quadriennio 2013-2017 delle armi pesanti (aerei, navi, sottomarini, carri armati e sistemi missilistici).
Partendo dai dati, resi pubblici da Istat ed Eurostat, il rapporto evidenzia per il 2017 una diminuzione del 9,3% rispetto all’anno precedente, con volume complessivo di esportazioni che passa da 1,3 miliardi di euro nel 2014 a 1,1 miliardi nel 2017. Il mercato è infatti affollato di nuovi paesi produttori. “Nel 2017 l’Italia - spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (Opal) di Brescia - ha perso soprattutto un primato, quello delle esportazioni di armi non militari, che ora è della Repubblica Ceca. Si tratta di armi per il tiro sportivo, per la caccia, soprattutto i fucili semiautomatici di cui la Repubblica Ceca è un grosso fornitore e che stanno venendo fortemente importati anche in Italia. Tanto per capirci, parliamo di quei fucili che vengono anche usati nelle stragi in America». Se da un lato si è registrato un calo, tuttavia sono le armi per uso militare a costituire la quota principale delle esportazioni. «Ce ne vogliono di fucili per fare, come costo e come valore, le bombe, soprattutto quelle aeree», aggiunge Giorgio Beretta.
A noi restano le domande. E molte. Un imprenditore che nel nostro Paese offre servizi di welfare, asili nido e assistenza ai propri dipendenti e poi, con serenità, si arricchisce nel fiorente mercato delle armi mondiale, deve sollevare la nostra domanda etica. Una parte fintamente evoluta e laica di attori economici (anche cristiani) oggi ci risponderebbe che la responsabilità (e la colpa) ricade su chi poi le usa. Che le armi si usano anche a scopo ludico, venatorio, di difesa. A noi piace ricordare che le armi prima o poi uccidono e che il nostro benessere non può poggiare mai sul dolore di altre vite umane. Dovercelo ricordare è forse una delle spie più preoccupanti del nostro tempo.
Le regole di un cliente (non) perfetto
C’era una volta la fattura, poi arrivarono le equity e i partner

Le regole di un cliente (non) perfetto
Il cliente che non vuole pagare il servizio per cui ti ha contattato ha un identikit preciso. Non svela mai subito le carte, allude sempre ad una grande disponibilità economica – “non staremo mica a parlare subito di soldi” - reitera più possibile il momento della definizione dei compiti e dei costi.Poi non appena si trova tra le mani il preventivo il suo volto si illumina e ti guarda come per dire: “Pensa di quali meschinità dobbiamo occuparci oggi”. Ma subitaneo un sorriso rassicurante e lusinghiero si fa largo sul suo viso e, a seconda dell’età, opta per uno dei seguenti schemi di gioco, non abbiamo ancora capito desunti da chissà quale manuale del perfetto imprenditore.
Il cliente A è un idealista.
Ha una delle più grandi aziende di imballaggi del nord Milano. Ma non vuole solo produrre imballaggi, pensa di avere capito che attraverso la vendita di scatole si possa cambiare il mondo. Produrre meglio, logistica a km zero, meno impatti territoriali, strategie di produzione, stoccaggio e mobilità delle merci ispirate alla razionalità più evoluta. Un paradiso! Naturalmente ha bisogno di una agenzia capace di raccontare al mondo non solo che le sue scatole sono le migliori, ma che lui vuole salvare il pianeta. Di fronte al preventivo dei costi di comunicazione e branding dell’operazione, solleva lo sguardo come chi sa vedere lontano. Ma io vi sto offrendo molto di più. Io non voglio un fornitore, io voglio un partner. Un soggetto che si faccia carico con me dei rischi dell’impresa, un temerario, un navigatore coraggioso. Perché se l’operazione riuscisse… Secondo se.
Il cliente B è un visionario.
Ha in mente di mettere in piedi una società di social housing, attenta alle più moderne domande del vivere contemporaneo. Costi ben mitigati di accesso all’acquisto, sostenibilità ambientale, integrazione sociale. Non ha capitale di partenza, né finanziatori, né una cordata di acquirenti come nel vecchio modello cooperativo. Cerca un’agenzia in grado di “vendere il sogno” di una perfetta convivenza di vicinato, pur non avendo ancora il progetto degli stabili e degli alloggi. Un paradiso! Ma c’è bisogno di avere un progetto e dei capitali per partire? Pare proprio di no. Ti spiega che la differenza la fa proprio l’agenzia di branding, che può aiutarlo a vendere quello che ancora non esiste. E come può farlo? Entrando in società con lui, accollandosi a sbalzo costi, tempo e lavoro, in vista di benefici venturi. Se l’operazione riuscisse. Primo se.
Il cliente C è un ottimista.
Genuino e appassionato, giovane e pieno di speranze. Ha in mano un’idea che ritiene promettente. Un nuovo social per musicisti, che finalmente metta in contatto giovani talenti al di fuori dei monopoli delle case discografiche. Avrebbe solo bisogno della grafica e del disegno di portale e applicazione ma ad un master per giovani imprenditori gli è stato detto che il branding è qualcosa di più evoluto della grafica di un sito. Si rivolge a te, dando impressione che soldi non saranno un problema, la posta in gioco è troppo alta da non investire subito risorse. Ah sì, beh risorse. Alla stretta finale, di fronte al preventivo, alza la palla. Ti rivela, fresco di lezione al master, che esistono le “equity”. Tu fai il lavoro, poi se ho successo partecipi in percentuale da definire al mio successo. Naturalmente difficile fare previsioni sul successo di un’azienda che non è ancora nata. Ma qui subentra il piano della fede! La fede che porta a pensare che ogni scantinato è potenzialmente la mangiatoia del nuovo messia nascente. Terzo se.
Il cliente A ha 60 anni, il cliente B ne ha 40, il cliente C ne ha 30.Nella narrazione di tutti e tre è forte la componente retorica e discorsiva: che sia l’innovazione sociale o tecnologica o culturale, tutti pensano di avere avuto un’idea geniale che merita qualcuno che la renda possibile. Tutti pensano che quel qualcuno sia tu e la tua agenzia. Gratis et amore dei.
Chi collabora, vince
Ogni attività sociale e collettiva funziona come una corsa a staffetta

Nella staffetta non vince la squadra che ha i giocatori migliori, i più veloci, i più scattanti. Vince la squadra con la migliore sincronia e sintonia di gruppo. Dunque paradossalmente anche la più lenta.Ce lo ha spiegato Yves Morieux, direttore del Boston Consulting Group’s Institute for Organization, grande esperto di processi collettivi. La vittoria di una squadra non è determinata dalla somma di segmenti spazio-temporali, tutti perfetti ed omogenei.
Dipende da quell’imponderabile energia che si sprigiona nella collaborazione tra i singoli corridori. Grazie alla collaborazione, l’intero vale più della somma delle parti. “Non è poesia, né filosofia. E’ matematica. La collaborazione semplicemente moltiplica l’energia e l’intelligenza degli sforzi umani”. Sta tutto qui il potenziale degli sforzi umani: consentire alle persone di ottenere insieme quello che da soli non potrebbero mai raggiungere.
Ogni attività sociale e collettiva funziona come una corsa a staffetta. Così in politica, nella ricerca, nell’economia. Così nella gestione di un’azienda o nella organizzazione di una scuola. E’ la capacità di collaborare che può fare la differenza tra un sistema vincente e uno a scartamento ridotto. Saperlo non basta. Ciascuno di noi potrebbe vantare una casistica corposa di situazioni - dalla riunione del consiglio di amministrazione, al condominio, alle associazioni di volontariato - in cui progetti bellissimi naufragano per l’incapacità di lavorare insieme senza conflitti e prevaricazioni. Che grande fatica si fa, ovunque.
Lo spettacolo desolante del nostro Parlamento in queste settimane rivela quanto i protagonismi facciano male al sistema, quanto persino le intelligenze isolate e incapaci di scambio e interazione con gli altri producano effetti negativi per tutti. Anche negli ambienti ad alta missione civile chi gioca da solo lo fa perché crede che valga lo scatto individuale, il colpo di intelligenza, la prontezza di nervi e la risposta pronta. “Io” - parola magica - prima persona individuale, spesso di genere maschile, talvolta intelligente e capace, più spesso solo narcisisticamente convinto di esserlo. La sua missione è arrivare primo, cavalcare ogni palcoscenico, ridurre gli altri a comparse inutili. E cercare il plauso sempre e comunque.
Mentre collaborare è un’attività creativa che si serve dei deboli e dei forti, perché non dimentica il senso e l’obiettivo del proprio agire. E’ capacità di dialogare, di leggere dietro le parole degli altri. Richiede di usare il condizionale, di non essere sempre e solo assertivi, di guardare l’altro con empatia e non solo con simpatia. Lasciamo i corridori da 100 metri alle loro gare solitarie, non hanno bisogno di sentirsi ripetere da un coro di replicanti che sono i migliori. Noi siamo tipi da squadra.
Quella volta a casa di Gillo Dorfles
L'intervista del 2008

E’ una delle più belle foto di Gillo. Ieratico, nella sua altera e compiaciuta inespressività. Volle regalarmi l’originale per ringraziarmi dell’intervista – pensate un po’ – che avremmo inserito in un mio piccolo libro. Parlammo di design e della storia del ‘900, di creatività e ispirazione, di miti e maestri, e alla fine gli chiesi: “Qual è l’oggetto che avresti voluto disegnare?” E lui: “la Porsche Carrera, senza alcun dubbio”. Era il 2008 e di anni ne aveva appena 97…
Il tratto principale del suo carattere?
Io non lo so, sono gli altri che dovrebbero dirlo.
Il suo più grosso difetto?
Credo di averne tanti, non riesco a definire il principale.
In che città vorrebbe vivere se non abitasse a Milano?
In qualsiasi altra città.
La cucina che preferisce.
Naturalmente quella italiana, e preferisco quella siciliana.
Il suo libro preferito.
Non c'è né assolutamente, perché ne preferisco troppi.
Lo sport che l’appassiona.
L'equitazione che ho praticato in cavalleria, poi lo sci per diletto, e poi la scherma dove ho anche vinto alcuni campionati.
Il primo ricordo di un oggetto a lei caro?
Non ricordo oggetti cari, essendomi sempre occupato di troppi oggetti per averne uno preferito su gli altri.
Gli oggetti che ama?
Tutti quelli che ho intorno a me, che ho raccolto negli anni.
E quelli che detesta?
Tutti quegli oggetti che appartengono ad una falsa modernità.
Cosa pensa di una casa controllata da computer e apparecchiature elettroniche?
Naturalmente è l'opposto di quello che piace a me, la casa deve sapersi liberare e affrancare dall'eccesso di tecnologia.
Che rapporto ha con la casa in cui vive?
Discreto e accomodante.
L’ambiente che predilige?
Soprattutto l'ambiente dove scrivo e disegno, e svolgo qualcosa della mia attività.
Un architetto, un designer, un artista.
Come architetti preferisco segnalarti Hollein e Gehry, come designer Mari, De Lucchi e il vecchio amico Sottsass, per gli artisti è ancora peggio, diciamo Klee, perché fare solo pochi nomi non è giusto.
Cosa pensa del design attuale?
Il design attuale si trova in una situazione delicata, perché avendo superato la fase iniziale in cui si staccava dall'artigianato, alla fine del secolo scorso, e dopo aver attraversato una fase di funzionalità di schemi con il rapporto forma-funzione, e aver anche attraversato il decorativismo che si ribellava alla purezza funzionale dell'epoca del Bauhaus, oggi il design è in una posizione molto critica, perché sta a cavallo tra una volontà di ripresa ornamentale e una volontà di purezza formale. Cinquanta anni fa il design era agli inizi; oggi, quasi non c'è più neanche la novità della professione, c'è un appiattimento sia nella professione sia nell'imprenditoria.
Pensando al design, quale periodo predilige?
Gli anni ‘60-’70, perché dopo gli anni di consolidamento di ULM, sono stati anni di diffusione e maggior fantasia applicata ad un design già consolidato. Per arrivare ad una fase di declino che è partita dalla fine degli anni ‘70.
Cinque oggetti di design che ama o ha amato?
La lampada di Mangiarotti, le ceramiche di Mari, la lampada “Toio” di Castiglioni, la sedia “Tonietta” sempre di Mari, e l'ultima Porsche Carrera 4.
Quale avrebbe voluto progettare Lei?
Sicuramente la Porsche.
L’arredamento della sua casa.
Sicuramente un mix; come vedi, trovi una lampada liberty, un’altra lampada e oggetti vari di Magistretti, e dei mobili dei miei nonni. (Se un mobile è antico e di famiglia, ed è originale, in qualsiasi casa sta bene).
Non ha mai pensato di progettare qualcosa?
No, non ho mai pensato di progettare niente, ho visto troppi progetti di altri.
Cosa rimpiange?
Rimpiango per esempio, di non aver applicato tutta la mia potenzialità alla pittura e all’arte, invece di fare il professore universitario, avrei potuto dedicarmi a queste due discipline.
Cosa pensa dell’intuizione?
Non c’è creazione artistica che non abbia intuizione. La curiosità e l’intuizione, come la percezione e la creazione, come la fantasia e il progetto sono intuizione.
Che rapporto ha con la tradizione?
La tradizione è fondamentale perché è la base della nostra formazione, va sempre superata, dopo averla studiata precedentemente.
Della sua città cosa le piace e cosa no?
Bisogna intendere quale è la mia città, sono nato a Trieste, ho vissuto l'infanzia a Genova, ho studiato a Roma, e vivo purtroppo a Milano da una vita, penso bene delle città dove non vivo.
Gioco della torre. Chi butta: Ron Arad o Philippe Starck?
Pur stimando ambedue ed avendo interesse per il loro lavoro, li butto entrambi perché li reputo pericolosi per essere esempi del buon design.
Le Corbusier o Aalto?
Nessuno dei due.
L’arte diventa sempre più riproducibile e il design più esclusivo e artistico?
Questa domanda deve tenere presente che con le nuove tecnologie l'arte ha perso l'individualità che aveva. Ciò non toglie che l'unicum artistico non solo esiste ancora ma ha acquistato dei valori che non aveva mai avuto; le aste e i prezzi mi danno ragione, i pezzi unici non possono essere riprodotti. Il design non diventa né esclusivo, né artistico, anche perché rispetto all'arte entrano in gioco altre varianti e altre figure professionali. Solo alcuni casi di design, vedi anche la mostra attualmente in corso alla Triennale di Milano di Gaetano Pesce, possono rifarsi alla tua domanda.
Il minimalismo è una moda o una nuova idea di abitare?
E’ solo una moda, già in fase calante.
Enzo Mari ha detto che “progettare è un atto di guerra”.
Sono le enfasi di Enzo Mari, alcune volte condivisibili, altre no.
Comunicazione e impresa sociale
Molto più di un’etichetta. Il marchio doc per l’impresa civile
