
Non esiste solo la costrizione o l’educazione, né la persuasione o la presenza di motivazioni intrinseche. Le persone possono essere indotte a compiere buone scelte da “pungoli leggeri” che fanno leva sulla loro componente più irrazionale.
E’ questa in sintesi la scoperta portata dagli studi sui comportamenti e le scelte economiche degli individui condotta da Richard Thaler, dell’università di Chicago, da ieri ufficialmente insignito ieri del Nobel per l’Economia.
C’è un tratto di questa strada che costringe gli automobilisti a fare una serie di curve a "esse" molto pericolose. Molti automobilisti ignorano il limite di velocità (25 miglia all’ora) e finiscono spesso fuori strada. Negli ultimi tempi la città ha adottato un nuovo espediente per incoraggiare gli automobilisti a rallentare.
All’inizio della curva pericolosa gli automobilisti incontrano un segnale dipinto sulla carreggiata che li avverte del più basso limite di velocità, seguito da una serie di strisce bianche. Le strisce non forniscono informazioni tattili (non sono dissuasori di velocità), ma mandano agli automobilisti un segnale visivo: inizialmente, quando appaiono, sono equidistanti tra loro, ma via via che ci si avvicina alla parte più pericolosa della curva si fanno progressivamente più vicine, dando la sensazione che la velocità di guida stia aumentando.
L’istinto naturale è quello di rallentare. Quando guidiamo su questo tratto familiare la sensazione è che queste strisce ci parlino, invitandoci gentilmente a toccare il freno prima di raggiungere l’apice della curva: veniamo pungolati.
“Gli economisti pensano che la gente abbia un cervello come un supercomputer, che può risolvere ogni cosa. Ma la mente umana è più simile a un vecchio Apple Mac, che marcia lento e si blocca facilmente”, scrive Thaler in «Nudge. La spinta gentile - La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute e felicità», scritto con Cass R. Sunstain.
Le persone reagiscono a pungoli esterni in maniera naturale, senza ponderare le proprie decisioni, in maniera istintiva. Sono irrazionali, copiano i comportamenti degli altri, sono determinati dagli assetti ambientali, sono sensibili alle strategie di marketing, sono attratti da situazioni giocose e informali. Questa predisposizione all’irrazionalità non è sempre e solo una risorsa negativa, anzi. E’ una leva su cui le società possono lavorare per facilitare scelte corrette e razionali, che nascono nella sfera affettiva e irrazionale delle persone, ma poi possono diventare comportamenti razionali acquisiti.
Per esempio, se in una mensa gli alimenti sani sono posti ben in vista, si possono orientare le scelte alimentari senza per questo togliere la libertà di scegliere quelli meno sani.
Analogamente, gli individui sono più portati a riciclare i rifiuti se vengono a sapere che molti altri individui si comportano allo stesso modo. Se, per ragioni ambientali o economiche, un hotel vuole indurre i clienti a riutilizzare gli asciugamani, farebbe bene a evidenziare il fatto che la maggior parte degli ospiti usa gli asciugamani più di una volta. La sua azione sarebbe ancora più incisiva se fornisse ai clienti qualche dato sul comportamento responsabile tenuto da quelli che hanno soggiornato nella stanza prima di loro.
Gli studi di Thaler hanno avuto un ruolo cruciale nel restituire valore all’emotività e irrazionalità umana, all’empatia, ai meccanismi di emulazione, energie squisitamente umane che da sempre l’economia ha negato come nemiche delle scelte razionali e consapevoli. Le ricadute su molte discipline, tra cui l’architettura e gli studi sulle città, sono evidenti. E aprono prospettive di ricerca e di applicazione molto stimolanti.
Come spenderà il premio del Nobel? “Nel modo più irrazionale possibile”, ha dichiarato Thaler. Quindi nel modo più umano possibile.
Mentre leggo la storia di Diego Piacentini trasecolo. Cinquant’anni e poco, 13 anni trascorsi in Apple alla scuola di Steve Job e poi 16 come dirigente in Amazon, è stato chiamato dal governo italiano come Commissario straordinario per introdurre il digitale nella vita dei cittadini. E ha accettato di partire, armi e bagagli, in cambio di nulla. Sì, perché Piacentini ha accettato di prendere un’aspettativa da Amazon di due anni e di lavorare gratuitamente.
“Senza alcun tipo di stipendio, pro bono, zero. Ho rinunciato anche ai rimborsi spese, niente vitto e alloggio, pago tutto con la mia carta di credito personale. Nei miei sedici anni negli Stati Uniti sono stato contagiato da un’idea forte, quella di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università. E’ il concetto del Give back”, dichiara Piacentini. Restituire è quasi un obbligo morale, se hai avuto successo, poi sei chiamato a dare indietro qualcosa a chi ti ha formato.
La restituzione, invece, presuppone l’impegno verso l’anonimo, lo sconosciuto, la comunità in senso lato. Può avvenire nella forma del mecenatismo, della donazione, della dedizione gratuita a qualche attività sociale o culturale, dell’impegno per le nuove generazioni. Non viene demandata alla stagione della pensione, quando l’impegno volontario è più diffuso e comprensibile, ma è parte del proprio impegno di persone attive e nel pieno delle forze.
Una chiamata alle armi per noi generazione di mezzo a cui vorrei rispondere. Un recente avanzamento di carriera mi ha liberato dall’ansia di darmi da fare per il mio lavoro, inseguendo titoli e conferme. Ora vorrei poter restituire una parte di quello che ho ricevuto, vorrei poter generare occasioni di lavoro per i più giovani. So di avere un debito, spero di riuscire ad onorarlo.
Questo è il tempo delle posizioni assolute e irriducibili, delle tifoserie compatte e l’una contro l’altra armate. Binarie appunto. Pensiamo al modo in cui si è combattuta la battaglia politica americana, fra Trump e la Clinton o alle contrapposizioni dure tra sostenitori del Sì e del No al Referendum; pensiamo al modo in cui ci si confronta tutti i giorni in televisione o sui social o nelle arene civili (dai condomini alle associazioni, anche le più pie). Si è pro o contro l’immigrazione, pro o contro le unioni civili, pro o contro il consumo di carne.
Potessimo andare tutti a scuola, a scuola di arte del discutere. Quella che un tempo avremmo definito l’arte della retorica: la capacità di argomentare, di ascoltare le posizioni degli altri, di convincere e di lasciarsi convincere. Quando è il caso.
E’ un gioco che dovremmo fare tutti ogni tanto. Io ho cominciato a proporlo in aula ai miei studenti: divido la classe in due squadre. Una contro l’altra. Assegno un tema dilemmatico e li invito a sostenere la posizione assegnata anche quando (meglio se) non la condividono.
Conduco il gioco, modero, passo la parola, li osservo. E soprattutto imparo moltissimo dalla loro “guerra di parole”. Mi colpisce come riescano piano piano a scaldarsi, a fare propria l’emozione della buona argomentazione. Capisco perché la retorica fosse così centrale nell’organizzazione dell’università medievale e perché si considerasse lecito discutere intorno a tutto, Dio, la natura, la scienza, la tecnica, le lingue, la chirurgia filosofia. Tutto veniva sottoposto alla confutazione, alla disputa e al confronto. In fondo sono così poche le questioni… che non ammettono replica!
Torniamo a discutere, con stile. Solo così la nostra testa si apre e si libera da ogni pensiero polveroso.
Difficile non porsi qualche domanda.
Perché spazi riunioni vietati ai maggiori di tre anni dovrebbero giovare alla governance dell’impresa? Spazi forzatamente destrutturati non potrebbero invece ridurre le persone a comparse di film? Non sono sicura che essere trattata come una bambina, accudita e coccolata, liberi la mia componente creativa e socievole. Forse c’è di mezzo sempre la mia dignità e la mia libertà di giocare o non giocare al gioco che qualcuno ha pensato per me. Non vorrei che nell’eccesso di luoghi di lavoro dove l’imperativo morale sembrerebbero divertirsi, perdessimo la dignità del lavoro vero, fatto anche di fogli bianchi, di dubbi, di ripetizione e fatica. Se tutti giocano, chi lavora? O meglio dove viene nascosto il lavoro (fare una telefonata, scrivere una mail, fare due conti)?
Se giocosa è la scena – o la messinscena – tutto appare diverso nel retro della scena dove le persone comuni lavorano. Lì dominano spazi piccoli, serrati, angusti, a portata di voce. Forse per fare venire voglia a molti di spostare a casa parte del lavoro, per avere un po’ di silenzio (telelavoro), riducendo i costi aziendali. Come osservano alcuni tecnici nel caso di Unicredit l’ingombro del vano servizi ha davvero ridotto al minimo lo spazio libero per piano destinabile agli uffici.
E dunque portare il lavoro nelle case per rappresentare la fiction negli spazi ufficiali costituirebbe un bel risparmio di spazi e di costi.
Beh, tutto sommato ci teniamo volentieri la nostra vecchia scrivania di legno e una bella lampada sul tavolo. La ginnastica e le capriole vorremmo continuare a farle…fuori dall’ufficio!
Una varietà di stili di vita che è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, dove le occasioni e le possibilità si moltiplicano, a scapito dei piccoli centri o delle zone più periferiche, che spesso restano lontane da ogni cambiamento.
La città ha un senso quando fa respirare Shakespeare anche a chi non va mai a teatro.