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Discutere con stile è un’arte

(anche della persuasione). L'esperimento di Andrea Granelli a regina Coeli ce lo dimostra
Di FIORE DE LETTERA

“Si-no, giovane-vecchio. Forse i computer diventeranno intelligenti, ma intanto noi umani ci stiamo riducendo alla loro logica binaria” (Maria Ferraris, twitter). Alle volte i 140 caratteri di Twitter consentono di dire in poco spazio grandi verità.

Questo è il tempo delle posizioni assolute e irriducibili, delle tifoserie compatte e l’una contro l’altra armate. Binarie appunto. Pensiamo al modo in cui si è combattuta la battaglia politica americana, fra Trump e la Clinton o alle contrapposizioni dure tra sostenitori del Sì e del No al Referendum; pensiamo al modo in cui ci si confronta tutti i giorni in televisione o sui social o nelle arene civili (dai condomini alle associazioni, anche le più pie). Si è pro o contro l’immigrazione, pro o contro le unioni civili, pro o contro il consumo di carne.

Ma non siamo computer e non dovrebbe appagarci una logica binaria, quanto un pensiero ispirato ai distinguo, i dipende,  i forse. Alle sfumature, più che al bianco o nero.

Potessimo andare tutti a scuola, a scuola di arte del discutere. Quella che un tempo avremmo definito l’arte della retorica: la capacità di argomentare, di ascoltare le posizioni degli altri, di convincere e di lasciarsi convincere. Quando è il caso.

Me l’ha fatta riscoprire qualche anno fa, l’amico Andrea Granelli con la sua Associazione PerLaRe che si dedica proprio a questo. Lo scorso maggio ha organizzato nel carcere di Regina Coeli una disputa dialettica tra detenuti e studenti, intorno al tema della legittima difesa: è giusto uccide un ladro che entra in casa nostra? Un confronto tra posizioni opposte e all’apparenza irriducibili. Vinceva la squadra maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili, senza perdere la calma, sbraitare o insultare.

E’ un gioco che dovremmo fare tutti ogni tanto. Io ho cominciato a proporlo in aula ai miei studenti: divido la classe in due squadre. Una contro l’altra. Assegno un tema dilemmatico e li invito a sostenere la posizione assegnata anche quando (meglio se) non la condividono.

Conduco il gioco, modero, passo la parola, li osservo. E soprattutto imparo moltissimo dalla loro “guerra di parole”. Mi colpisce come riescano piano piano a scaldarsi, a fare propria l’emozione della buona argomentazione. Capisco perché la retorica fosse così centrale nell’organizzazione dell’università medievale e perché si considerasse lecito discutere intorno a tutto, Dio, la natura, la scienza, la tecnica, le lingue, la chirurgia filosofia. Tutto veniva sottoposto alla confutazione, alla disputa e al confronto. In fondo sono così poche le questioni… che non ammettono replica!

Torniamo a discutere, con stile. Solo così la nostra testa si apre e si libera da ogni pensiero polveroso.


Ufficio o asilo nido?

Google e Facebook ci insegnano a bambinizzare gli spazi del lavoro
Di FIORE DE LETTERA

Tutto è morbido, ovattato, colorato e giocoso. Piccoli animaletti appesi alle pareti, cuscini appoggiati a terra dove sdraiarsi gioiosamente, amache appese alle pareti ed enormi scivoli.  Non è la nuova estetica degli asilo nido o delle nursery da ospedale. Bambinizzare gli spazi di rappresentanza è diventata l’ultima tendenza del design di interni di grandi sedi bancarie e multinazionali. E per quanto fatichiamo davvero a immaginare seriosi manager in giacca e cravatta perdere ogni compostezza per rotolarsi tra i cuscini tra una delibera e l’altra, oggi lo smart work va proprio in questa direzione. E la bella relazione fatta da Matteo Cabassi (Brioschi spa) alla Scuola di Economia Civile presso Open Care (22.01.16) ha fornito spunti su cui riflettere.

Certamente gli spazi di lavoro di Google e Facebook hanno fatto scuola. Archiviati da tempo tavoli riunioni e uffici patinati, propongono spazi in cui liberare la dimensione giocosa delle persone. In Italia, questa moda è stata raccolta da Unicredit che nei nuovi uffici milanesi propone ai dipendenti spazi fluidi e interscambiabili, dove “lavorare in qualsiasi spazio” senza postazioni rigide. “Cinque giorni lavorativi, quattro in ufficio e uno dove vi fa più comodo” dichiarano in modo programmatico. Sicuri che cambiando la natura degli spazi si possano modificare comportamenti e attitudini delle persone, improntandole a una maggiore informalità e creatività.

Difficile non porsi qualche domanda.

Perché spazi riunioni vietati ai maggiori di tre anni dovrebbero giovare alla governance dell’impresa? Spazi forzatamente destrutturati non potrebbero invece ridurre le persone a comparse di film? Non sono sicura che essere trattata come una bambina, accudita e coccolata, liberi la mia componente creativa e socievole. Forse c’è di mezzo sempre la mia dignità e la mia libertà di giocare o non giocare al gioco che qualcuno ha pensato per me. Non vorrei che nell’eccesso di luoghi di lavoro dove l’imperativo morale sembrerebbero divertirsi, perdessimo la dignità del lavoro vero, fatto anche di fogli bianchi, di dubbi, di ripetizione e fatica. Se tutti giocano, chi lavora? O meglio dove viene nascosto il lavoro (fare una telefonata, scrivere una mail, fare due conti)?

Se giocosa è la scena – o la messinscena – tutto appare diverso nel retro della scena dove le persone comuni lavorano. Lì dominano spazi piccoli, serrati, angusti, a portata di voce. Forse per fare venire voglia a molti di spostare a casa parte del lavoro, per avere un po’ di silenzio (telelavoro), riducendo i costi aziendali. Come osservano alcuni tecnici nel caso di Unicredit l’ingombro del vano servizi ha davvero ridotto al minimo lo spazio libero per piano destinabile agli uffici.

E dunque portare il lavoro nelle case per rappresentare la fiction negli spazi ufficiali costituirebbe un bel risparmio di spazi e di costi.

Beh, tutto sommato ci teniamo volentieri la nostra vecchia scrivania di legno e una bella lampada sul tavolo. La ginnastica e le capriole vorremmo continuare a farle…fuori dall’ufficio!


Vorrei ma posso. Quando voglio

paradossi ed esperienze del consumo di chi vive in città
Di Elena GRANATA

Dove abito io potrei fare la spesa in ogni ora del giorno. Tutto il giorno e tutta la notte. Se nel cuore della notte mi ricordo che mi manca il sale non è un problema. Non devo certo bussare al vicino di casa. Potrei andare al cinema tutti i giorni e vedere un film diverso, la multisala cambia programmazione tutti i mercoledì. Ogni domenica potrei andare a teatro, al museo, alla pinacoteca, sentire un concerto in una bella sala o in un parco d’estate. Quanto a mangiare, in ogni angolo della città trovo cibo in abbondanza e per tutte le tasche, di ogni gusto e provenienza. Posso scegliere la scuola dei miei figli, tra molte, decidere a quali gruppi sportivi iscriverli. Se avessi molto tempo potrei attardarmi nei piccoli negozi del quartiere, se ne avessi pochissimo potrei decidere di farmi portare la spesa a casa, un piatto già pronto prima dell’arrivo degli ospiti, una pizza a tarda ora. Sono moltissimi i luoghi pubblici in cui collegarmi a internet alla massima velocità, dunque potrei lavorare seduta in un parco o sulla panchina di una piazza.

Potrei ma non lo faccio. Non faccio la spesa di notte. Non vado al cinema tutte le settimane. E’ rarissimo che vada a teatro o al museo di domenica. I figli li ho pigramente iscritti alla scuola di quartiere, senza considerare nemmeno la scuola cattolica o quella ebraica, la steineriana o l’umanitaria. Non ho fatto molte cose, ma so che potrei farle, so che altri le fanno anche se io non le farò, potrei sempre decidere di farle. Questo mi pare il senso più profondo di vivere in una grande città. L’esperienza urbana non corrisponde solo a quello che i cittadini fanno, ma anche a quello che non fanno, ma vivono attraverso le esperienze degli altri. Questa esperienza, e questa non esperienza, sono il condimento (e il godimento) della vita nelle grandi città, che fa crescere i nostri figli anche solo guardando come vivono gli altri: chi ha molto, chi ha troppo, chi non ha nulla.

Una varietà di stili di vita che è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, dove le occasioni e le possibilità si moltiplicano, a scapito dei piccoli centri o delle zone più periferiche, che spesso restano lontane da ogni cambiamento.

La libertà di chi vive in città è tutta interiore, si nutre del fare come del non fare. So di poterla esercitare, di poter scegliere, di potere cambiare gusti e interessi, amicizie e luoghi. Come ci ricordava quel grande osservatore di città che era Giorgio Gaber: “Non si gode mai abbastanza di quello che si perde, mai. Ma ti rendi conto? Essere a casa e pensare, questa sera mi sono perso il Macbeth”.

La città ha un senso quando fa respirare Shakespeare anche a chi non va mai a teatro.