
Questo è il tempo delle posizioni assolute e irriducibili, delle tifoserie compatte e l’una contro l’altra armate. Binarie appunto. Pensiamo al modo in cui si è combattuta la battaglia politica americana, fra Trump e la Clinton o alle contrapposizioni dure tra sostenitori del Sì e del No al Referendum; pensiamo al modo in cui ci si confronta tutti i giorni in televisione o sui social o nelle arene civili (dai condomini alle associazioni, anche le più pie). Si è pro o contro l’immigrazione, pro o contro le unioni civili, pro o contro il consumo di carne.
Potessimo andare tutti a scuola, a scuola di arte del discutere. Quella che un tempo avremmo definito l’arte della retorica: la capacità di argomentare, di ascoltare le posizioni degli altri, di convincere e di lasciarsi convincere. Quando è il caso.
E’ un gioco che dovremmo fare tutti ogni tanto. Io ho cominciato a proporlo in aula ai miei studenti: divido la classe in due squadre. Una contro l’altra. Assegno un tema dilemmatico e li invito a sostenere la posizione assegnata anche quando (meglio se) non la condividono.
Conduco il gioco, modero, passo la parola, li osservo. E soprattutto imparo moltissimo dalla loro “guerra di parole”. Mi colpisce come riescano piano piano a scaldarsi, a fare propria l’emozione della buona argomentazione. Capisco perché la retorica fosse così centrale nell’organizzazione dell’università medievale e perché si considerasse lecito discutere intorno a tutto, Dio, la natura, la scienza, la tecnica, le lingue, la chirurgia filosofia. Tutto veniva sottoposto alla confutazione, alla disputa e al confronto. In fondo sono così poche le questioni… che non ammettono replica!
Torniamo a discutere, con stile. Solo così la nostra testa si apre e si libera da ogni pensiero polveroso.
Difficile non porsi qualche domanda.
Perché spazi riunioni vietati ai maggiori di tre anni dovrebbero giovare alla governance dell’impresa? Spazi forzatamente destrutturati non potrebbero invece ridurre le persone a comparse di film? Non sono sicura che essere trattata come una bambina, accudita e coccolata, liberi la mia componente creativa e socievole. Forse c’è di mezzo sempre la mia dignità e la mia libertà di giocare o non giocare al gioco che qualcuno ha pensato per me. Non vorrei che nell’eccesso di luoghi di lavoro dove l’imperativo morale sembrerebbero divertirsi, perdessimo la dignità del lavoro vero, fatto anche di fogli bianchi, di dubbi, di ripetizione e fatica. Se tutti giocano, chi lavora? O meglio dove viene nascosto il lavoro (fare una telefonata, scrivere una mail, fare due conti)?
Se giocosa è la scena – o la messinscena – tutto appare diverso nel retro della scena dove le persone comuni lavorano. Lì dominano spazi piccoli, serrati, angusti, a portata di voce. Forse per fare venire voglia a molti di spostare a casa parte del lavoro, per avere un po’ di silenzio (telelavoro), riducendo i costi aziendali. Come osservano alcuni tecnici nel caso di Unicredit l’ingombro del vano servizi ha davvero ridotto al minimo lo spazio libero per piano destinabile agli uffici.
E dunque portare il lavoro nelle case per rappresentare la fiction negli spazi ufficiali costituirebbe un bel risparmio di spazi e di costi.
Beh, tutto sommato ci teniamo volentieri la nostra vecchia scrivania di legno e una bella lampada sul tavolo. La ginnastica e le capriole vorremmo continuare a farle…fuori dall’ufficio!
Una varietà di stili di vita che è sempre più concentrata nei grandi centri urbani, dove le occasioni e le possibilità si moltiplicano, a scapito dei piccoli centri o delle zone più periferiche, che spesso restano lontane da ogni cambiamento.
La città ha un senso quando fa respirare Shakespeare anche a chi non va mai a teatro.